Fisco Tasse e imposte Tassa sui controlli targa: perché i Comuni pagano milioni per un servizio contestato

Tassa sui controlli targa: perché i Comuni pagano milioni per un servizio contestato

I comuni italiani spendono milioni per accedere ai dati delle targhe: la tassa è contestata, ma il Ministero dei Trasporti resiste. Ecco cosa succede.

11 Settembre 2025 14:50

La sicurezza sulle strade italiane è un tema che interessa ogni angolo del Paese, ma spesso nasconde oneri finanziari inattesi. Ad attirare l’attenzione è l’obbligo di versare 47 centesimi per ogni verifica eseguita dalla polizia locale su una targa, un costo che a fine anno pesa in modo sensibile sui bilanci dei comuni.

Questa spesa, destinata alla motorizzazione civile, nasce da regole datate che non tengono conto delle tecnologie moderne e delle esigenze di un sistema informativo integrato. Di conseguenza, chi governa a livello locale si trova a fronteggiare il dilemma di bilanciare l’impegno per il controllo capillare del territorio e l’urgenza di contenere le spese.

Come se non bastasse, la questione è aggravata dal fatto che queste tariffe, anziché ridursi, hanno visto piccoli ma costanti aumenti nel corso degli anni, scatenando una battaglia legale che coinvolge più di una generazione di amministratori.

Un costo nascosto

Ogni controllo targa comporta una spesa che, sommata ai costi fissi di convenzione, genera una vivace discussione su chi debba effettivamente sostenere queste somme. Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti si appella a normative consolidate, mentre i sindaci si chiedono se sia equo pagare per servizi che considerano parte integrante del monitoraggio pubblico.

Nel frattempo, il meccanismo di versamento rimane rigido: una quota base annua di 1.450 euro, più il gettone per ogni singola consultazione. Ciò significa che realtà territoriali di dimensioni opposte si trovano a pagare in modo proporzionalmente differente, con picchi considerevoli per le grandi città. E l’aspetto più critico riguarda proprio le risorse, spesso sottratte a progetti di digitalizzazione e interventi di sicurezza stradale.

La controversia legale

Dal 2013, alcuni amministratori hanno deciso di ricorrere contro questa imposizione, sostenendo che il decreto 634 del 1994 su cui si basa la tariffazione sia superato.

In loro difesa interviene il più recente Codice dell’amministrazione digitale, che prevede lo scambio gratuito di dati tra gli enti pubblici. Milano, tra i primi a sollevare il caso, ha ottenuto un parziale successo in Corte d’Appello, vedendo riconosciuto il rimborso delle somme versate.

Tuttavia, la partita resta aperta poiché il Ministero ha presentato ricorso in Cassazione, mantenendo lo scenario in un limbo di incertezze e continui esborsi. Questo conflitto giuridico mette in luce la necessità di chiarire quali siano i veri oneri dovuti e quale sia la corretta interpretazione delle normative vigenti.

Cosa aspettarsi per il futuro

L’ANCI chiede una soluzione che semplifichi lo scambio di informazioni e abbatta i costi che gravano sulle amministrazioni. Secondo i vertici dell’Associazione, un accordo coordinato permetterebbe di sbloccare fondi da reinvestire in infrastrutture e progetti evoluti, in linea con le esigenze di efficienza e trasparenza.

Nel frattempo, i Comuni più esposti cercano di negoziare tutele economiche immediate, mentre cresce la consapevolezza che una revisione complessiva delle tariffe aiuterebbe a migliorare la condivisione dei dati tra enti. In un contesto così dinamico, la posta in gioco è alta: la definizione di regole chiare per la ripartizione delle spese e la garanzia di un servizio efficace per i cittadini, senza penalizzare la sicurezza né frenare le potenzialità dell’innovazione tecnologica.

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