Lavoro Referendum 2025: il terzo quesito sul Jobs Act e le sue implicazioni

Referendum 2025: il terzo quesito sul Jobs Act e le sue implicazioni

Il terzo quesito del referendum 2025 punta a modificare le regole sui contratti a termine. Scopri le implicazioni per lavoratori e imprese.

5 Giugno 2025 16:30

Nel panorama politico ed economico italiano, si avvicina a grandi passi un appuntamento che rischia di segnare uno spartiacque nella regolamentazione del lavoro: il referendum 2025. Un voto che non è solo una questione tecnica o giuridica, ma un vero e proprio termometro del rapporto tra flessibilità e tutela, tra esigenze delle imprese e diritti dei lavoratori.

Sul banco degli imputati torna il tanto discusso Jobs Act, quella riforma che ha cambiato il volto dei contratti a termine e che ora, con il nuovo quesito referendario, potrebbe essere nuovamente stravolta.

Jobs Act nel mirino: cosa cambia se vince il Sì al referendum 2025

Al centro del dibattito, la questione della causale dei contratti: oggi le aziende possono stipulare rapporti di lavoro temporanei senza specificare una motivazione, almeno per la durata di dodici mesi. Una soluzione che, a detta dei sostenitori, garantisce quella flessibilità che spesso fa la differenza tra la sopravvivenza e la chiusura, soprattutto per le piccole e medie imprese. Tuttavia, questa libertà normativa è vista da molti come il carburante del precariato, un fenomeno che negli ultimi anni ha assunto proporzioni sempre più preoccupanti, colpendo in particolare giovani e donne, e lasciando sul campo insicurezza e salari stagnanti.

La posta in gioco, insomma, non è da poco. Da una parte c’è chi invoca il ritorno a una stagione di regole più stringenti, sostenendo che ogni contratto a termine debba essere giustificato da esigenze concrete e verificabili. È questa la posizione del fronte del SÌ, che punta a ripristinare la disciplina pre-2015 e a frenare quella che viene percepita come una deriva verso la “normalizzazione” della precarietà. Per loro, reintrodurre la causale contratti significa ridare dignità al lavoro, limitare il ricorso al part-time involontario e dare una spinta, finalmente, alla crescita dei salari.

Dall’altro lato, il fronte del NO mette in guardia contro il rischio di irrigidire eccessivamente il mercato del lavoro. Secondo questa visione, imporre di nuovo la causale contratti rischia di soffocare la capacità di adattamento delle imprese, in particolare delle PMI che rappresentano l’ossatura produttiva del Paese. Per loro, la flessibilità non è un capriccio, ma una necessità per fronteggiare le oscillazioni della domanda e i cicli economici sempre più imprevedibili. E se da una parte si teme la cristallizzazione del precariato, dall’altra si paventa un possibile boomerang: troppa rigidità potrebbe tradursi in meno assunzioni e, paradossalmente, in più disoccupazione.

Contratti a termine: flessibilità o tutele?

La partita, come spesso accade in Italia, si gioca anche nei palazzi della politica. Il Partito Democratico, almeno sulla carta, sostiene il SÌ, ma le divisioni interne non mancano, soprattutto tra i riformisti. Il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra si schierano compatti per l’abrogazione delle norme attuali, mentre Italia Viva, Azione e +Europa difendono a spada tratta l’impianto del Jobs Act. Il centrodestra, dal canto suo, punta sulla strategia dell’astensione, nella speranza che il quorum non venga raggiunto e che tutto resti com’è.

Ma al di là delle strategie e dei posizionamenti, resta il nodo di fondo: quale modello di sviluppo vogliamo per il nostro Paese? Un sistema che privilegi la stabilità e la protezione sociale, o uno che punti tutto sulla capacità di adattarsi rapidamente ai cambiamenti? Con la vittoria del SÌ, ogni contratto a termine dovrà essere motivato da esigenze oggettive, con un probabile aumento degli oneri amministrativi per le aziende ma anche con la prospettiva di un mercato del lavoro meno esposto alle derive del precariato. Se invece dovesse prevalere il NO, rimarrebbe la possibilità di stipulare contratti “acausali” fino a dodici mesi, garantendo alle imprese quella libertà d’azione che, secondo molti, è indispensabile per restare competitivi.

In ogni caso, il referendum 2025 rappresenta molto più di una semplice consultazione popolare: è un bivio, un momento di verità che costringerà l’Italia a fare i conti con le proprie contraddizioni e a scegliere, una volta per tutte, da che parte stare. Che si tratti di rimettere mano al Jobs Act o di difendere l’attuale assetto, la sfida sarà quella di trovare un equilibrio tra le esigenze delle imprese e la tutela di chi lavora, evitando sia la trappola della rigidità sia quella della precarietà senza regole. Perché, in fondo, la qualità del lavoro resta la cartina di tornasole del benessere di un Paese e della sua capacità di guardare al futuro con fiducia.

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