Malattia professionale, come far valere i propri diritti
Scopri come un dipendente può far valere i propri diritti in merito alla malattia professionale grazie ai casi conosciuti.
Fonte immagine: ansa
La recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 4166/2025, rappresenta un passaggio cruciale nella definizione dei limiti di responsabilità dei datori di lavoro in materia di malattia professionale.
Questo pronunciamento stabilisce criteri più stringenti e scientificamente fondati per determinare quando un lavoratore possa legittimamente richiedere un risarcimento, eliminando l’idea di un nesso automatico tra patologia e indennizzo. Una decisione che, se da un lato tutela i lavoratori, dall’altro garantisce una maggiore equità nei confronti dei datori di lavoro.
Distinzione tra infortuni sul lavoro e malattia professionale
L’ordinanza opera una netta distinzione tra infortuni sul lavoro e malattia professionale. Mentre i primi sono caratterizzati da eventi improvvisi e traumatici, le seconde si sviluppano gradualmente a causa di esposizioni prolungate a fattori nocivi. È qui che emerge l’importanza della prova: il lavoratore è chiamato a dimostrare, con elementi chiari e specifici, il collegamento tra la patologia e le condizioni lavorative. Questo passaggio, tutt’altro che scontato, richiede una valutazione rigorosa e basata sulle conoscenze scientifiche disponibili.
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un’operatrice di asilo nido che aveva richiesto un risarcimento per una patologia discale lombare. La Corte ha respinto la richiesta, sottolineando che, prima del 2007, non vi era una conoscenza scientifica consolidata sui rischi specifici legati a tali mansioni. Inoltre, il datore di lavoro aveva successivamente adottato misure preventive adeguate, come l’introduzione di arredi ergonomici e una sorveglianza sanitaria mirata. Questo esempio evidenzia come la responsabilità del datore di lavoro non sia assoluta, ma dipenda dal rispetto delle precauzioni richieste in base alle conoscenze disponibili al momento.
Il ruolo del datore di lavoro
La chiave di volta della sentenza risiede nell’interpretazione dell’articolo 2087 del Codice Civile, che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti. Tuttavia, la Corte ha chiarito che questa responsabilità non è di natura oggettiva: il datore risponde solo se ha trascurato di osservare le precauzioni necessarie secondo le conoscenze scientifiche e tecniche del momento. In altre parole, il legislatore non intende penalizzare il datore di lavoro per eventi imprevedibili o per rischi non ancora conosciuti dalla comunità scientifica.
Questa decisione segna un equilibrio delicato ma fondamentale tra la tutela dei lavoratori e le esigenze delle aziende. Se da un lato i lavoratori devono essere protetti da condizioni lavorative potenzialmente dannose, dall’altro non si può ignorare la necessità di evitare oneri eccessivi per i datori di lavoro, soprattutto in assenza di una chiara correlazione tra malattia e ambiente lavorativo. L’approccio rigoroso richiesto dalla Corte rappresenta un invito a entrambe le parti: i lavoratori devono presentare prove solide e i datori devono impegnarsi a garantire un ambiente di lavoro sicuro e conforme alle conoscenze più aggiornate.
L’ordinanza n. 4166/2025 non solo offre un punto di riferimento giuridico importante, ma invita anche a una riflessione più ampia sul ruolo della scienza e della tecnica nel diritto del lavoro. In un contesto in cui le conoscenze evolvono rapidamente, è essenziale che le normative e le interpretazioni giurisprudenziali siano in grado di adattarsi, garantendo una protezione adeguata ai lavoratori senza penalizzare ingiustamente le imprese. Questo equilibrio, se ben gestito, può contribuire a un ambiente lavorativo più sicuro e a una giustizia più equa per tutte le parti coinvolte.
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