Sanzioni UE a Israele: perché Italia e Germania dicono no
La Commissione Europea propone sanzioni e stop ai fondi per Israele dopo Gaza, ma Germania e Italia ostacolano le misure.
Fonte immagine: ANSA
Non è un mistero che la Commissione Europea sia impegnata a trovare un equilibrio tra pressioni interne ed esterne: da un lato, si ventila un piano stringente di sanzioni per Israele per rispondere all’offensiva su Gaza, dall’altro emergono voci critiche pronte a bloccare l’iniziativa.
Già nelle prime bozze, si è discusso di colpire coloni violenti con misure mirate, sospettando che tali interventi possano provocare scossoni notevoli sulla stabilità diplomatica. Nel frattempo, all’orizzonte si profila l’ipotesi di reintrodurre dazi e di congelare fondi già stanziati, presagi di un approccio ben più radicale rispetto al passato.
Tuttavia, l’unanimità resta un obiettivo arduo da raggiungere, soprattutto a causa di interessi divergenti fra i Paesi dell’Unione, pronti a difendere le proprie linee guida su un tema incandescente.
Sanzioni UE a Israele: la divisione tra gli Stati membri
È emblematico osservare come la Germania, da un lato, e l’alleata Italia, dall’altro, facciano muro contro le sanzioni per Israele. Il rifiuto di Berlino di allinearsi ha un peso determinante, essendo lo Stato più popoloso dell’Unione, e la posizione reticente di Roma ne rafforza l’effetto.
Entrambi, secondo indiscrezioni, temono che l’approvazione di provvedimenti giudicati troppo duri possa minare accordi già in bilico e innescare reazioni a catena. In questa chiave, la maggioranza qualificata richiesta per la sospensione degli accordi commerciali appare difficile da raggiungere.
A lungo, si è temuto che la frammentazione interna potesse addirittura compromettere la credibilità europea, evidenziando tensioni che vanno ben oltre la questione puramente economica e coinvolgendo i delicati equilibri geopolitici dell’intera area mediterranea.
Il nodo delle forniture militari
Lo scenario si complica ulteriormente se si considerano i rapporti militari tra Berlino e Tel Aviv. Negli ultimi anni, la fornitura di armi da parte della Germania verso Israele è passata dal 6% al 33%, un balzo che riflette un consolidamento strategico innegabile.
Appena dopo l’attacco di Hamas del 2023, le esportazioni tedesche hanno superato il mezzo miliardo di euro, includendo munizioni ed equipaggiamenti destinati all’uso in zone di conflitto. Promesse politiche di restringere forniture considerate offensive non hanno ancora definito una lista precisa, lasciando intendere un approccio dai contorni molto sfumati.
Fa da cornice a tutto ciò il timore che l’eventuale blocco di scambi tecnologici e difensivi possa compromettere, in modo irreparabile, i canali di dialogo fra i due Paesi.
Sguardo al futuro europeo
Sullo sfondo, i governi nazionali si interrogano su come proteggere i propri interessi, senza sacrificare l’immagine di un’Europa coesa. Alla finestra, gruppi di pressione e associazioni umanitarie monitorano con attenzione le mosse dei vari esecutivi, desiderosi di vedere applicate le sanzioni per Israele.
Poche settimane fa, si era ipotizzato un tavolo di lavoro comune per discutere la sospensione di alcuni scambi privilegiati, ma le reticenze di Paesi influenti lasciano spazio a diversi scenari. A oggi, la riduzione o l’aumento delle misure punitive dipenderà dalla volontà di superare i forti contrasti interni, cercando di garantire un indirizzo unitario che non trascuri le diverse sensibilità. L’evoluzione continua e servirà un monitoraggio costante per comprendere se, alla fine, prevarrà la logica della fermezza oppure quella del compromesso.
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