Lavoro Lavoratori poveri in Italia: in 6 milioni vivono con mille euro al mese

Lavoratori poveri in Italia: in 6 milioni vivono con mille euro al mese

Nel 2023, 1 lavoratore su 10 in Italia è povero. Ecco le cause, i dati CGIL e il ruolo di salari bassi e contratti precari.

27 Maggio 2025 15:45

Il lavoro, un tempo simbolo di stabilità economica, si è trasformato in un paradosso che colpisce milioni di italiani. Lavorare non basta più per vivere dignitosamente, e questa realtà si traduce in una crescita preoccupante dei lavoratori poveri.

Sono circa 10 milioni i dipendenti del settore privato che guadagnano meno di 25.000 euro lordi all’anno, mentre oltre 6 milioni non superano i 15.000 euro, una cifra che equivale a circa 1.000 euro netti al mese. Ancora più allarmante è la condizione di 2,36 milioni di persone che percepiscono meno di 5.000 euro l’anno, rimanendo intrappolati in una spirale di precarietà.

Il paradosso della povertà collegata al lavoro

Questa povertà lavorativa, come evidenziato dalle statistiche della CGIL, non è un’eccezione, ma un fenomeno strutturale che colpisce il 9,9% degli occupati italiani, superando la media europea dell’8,3%. È un problema che coinvolge un lavoratore su dieci, radicato in un sistema economico che premia la competizione al ribasso sui costi anziché investire in innovazione e qualità. Contratti precari, contratti part-time involontari, basse retribuzioni orarie e una scarsa qualificazione professionale sono solo alcune delle cause che alimentano questa crisi.

Le disparità retributive sono un altro elemento chiave. Secondo i dati INPS, un lavoratore a tempo indeterminato guadagna in media 28.540 euro lordi all’anno, mentre chi ha un contratto a termine si ferma a 10.302 euro. I lavoratori part-time sono ulteriormente penalizzati, con una media di 11.785 euro, che scende a soli 7.100 euro per chi combina un contratto a tempo determinato con un orario ridotto. Nel 2023, nonostante un incremento salariale del 3,5%, l’inflazione al 5,9% ha eroso il potere d’acquisto, aggravando una situazione già critica.

Tra i più vulnerabili troviamo apprendisti, lavoratori a termine, dipendenti di piccole imprese, part-time e lavoratori stranieri. Il part-time involontario, che nel 2023 ha raggiunto il 54,8%, rappresenta il valore più alto dell’Eurozona. Inoltre, l’83,5% dei contratti cessati ha avuto una durata inferiore a un anno, con il 51% conclusosi entro tre mesi. Questi numeri rivelano una precarietà che mina le basi della sicurezza economica e sociale.

Il salario minimo è ancora lontano

La proposta di introdurre un salario minimo per legge è al centro del dibattito politico. Da un lato, si sostiene che una soglia retributiva garantita possa ridurre le disuguaglianze e offrire un’ancora di salvezza ai lavoratori più esposti. Dall’altro, si preferisce affidarsi alla contrattazione collettiva, ritenuta più flessibile e capace di adattarsi alle diverse realtà settoriali. Tuttavia, mentre le discussioni si protraggono, milioni di lavoratori continuano a vivere in una condizione di insicurezza, senza prospettive di miglioramento.

In questo contesto, emerge la necessità di una riflessione profonda sulla qualità del lavoro in Italia. I dati sull’occupazione, spesso utilizzati come indicatore di progresso, devono essere letti alla luce di queste disuguaglianze. Il lavoro dovrebbe rappresentare un’opportunità di crescita e realizzazione personale, non una condanna alla povertà. Affrontare il problema richiede interventi strutturali, che vadano oltre le soluzioni temporanee e pongano al centro il benessere dei lavoratori.

La sfida è complessa, ma non impossibile. Solo attraverso un impegno collettivo e una visione a lungo termine sarà possibile invertire questa tendenza e restituire dignità al lavoro, trasformandolo in un motore di progresso e inclusione sociale.

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